PEZZI DI DADAS IX

di Žuan Brunetti - News Editoria Visual

UO4 Direzione Cadoneghe

Jacopo Ranzato (Dadas #1)
jacopo ranzato - U04 direzione Cadoneghe

“QUATTRO VECCHIOTTI”

Žuan Brunetti (Dadas #1)

Il destino dell’umanità viene deciso nella provincia veneta.
È una verità inespugnabile e indiscutibile, oggettiva e assoluta, al di là di ogni orizzonte di verosimiglianza. Il fatto che pochissimi, o quasi nessuno, ne siano al corrente non ne smuove di un millimetro la fattualità.
Ci si potrebbe invece interrogare, con maggiore possibilità di movimento, circa il significato di “destino dell’umanità”.
“Destino” in che senso?
E l’umanità la intendiamo tutta tutta? Metà?
È sempre umanità anche se ne resta una manciata di milioni?
Del resto, forse non dobbiamo proprio liberarci di ogni ambiguità: accettiamo il chiaroscuro semantico, la scala planetaria del concetto resta evidente.
Avremo forse maggior fortuna nel gettare luce sull’improbabile collocazione geografica?
No, non l’avremo.
Ci si intenda: il luogo è ben definito, vi si potrebbero facilmente abbinare latitudine e longitudine esatte. Ma è un luogo remoto, tanto rintanato nelle regioni più estreme della campagna veneta da rendere impossibile stabilire a quale provincia appartenga.
Di nuovo, conviene accontentarsi: si pensi quindi a una strada di campagna, non lontana da un non meglio precisato canale o fiumiciattolo e affatto vicina a qualsiasi altra parvenza di comunità, nella zona in cui i confini dei territori veneziani, padovani e rodigini si confondono e sfumano in un garbuglio burocratico che nessuno ha mai avuto la forza di disfare, giacché a nessuno importa abbastanza; meglio ancora, si prenda per buona un’espressione cara al pastiche linguistico locale, in mezo ae brecane.
Qui, si trova un bar.

Il bar è come qualsiasi altro bar che ci si può aspettare di trovare lungo una strada isolata della provincia più profonda, o nel cuore di una zona industriale. Solo, più anonimo, privo di qualsivoglia caratteristica memorabile o distintiva, in negativo o in positivo. Non un bar squallido, o sordido, o poco pulito. Un bar svogliato.

Questo secondo un’analisi sincronica, calata nel presente, quella che possiamo facilmente aspettarci da un visitatore occasionale, da un viaggiatore alla ricerca degli itinerari meno battuti, o da ferventi seguaci delle indicazioni di Google Maps destinati a un brusco risveglio.
Ma proviamo a osservare il bar con un approccio svincolato dalle strette maglie dell’adesso e vedremo come il bar si trovi qui da sempre.
E sia, possiamo convenire che “sempre” implichi una prospettiva eccessivamente estesa. Ma risalendo di gestione in gestione possiamo facilmente giungere agli inizi del secolo scorso e ritrovare il bar in queste medesime coordinate spaziali, egualmente insipido nell’aspetto e insolitamente avulso dal consorzio umano.
Muoviamoci duecento anni più indietro per ritrovarci un caffè, a contendere il territorio a insetti e acquitrini.
Ampliamo la nostra falcata diacronica di una manciata di secoli per scoprirvi un’osteria: lontano da qualsiasi zona di passaggio, ma comunque un luogo destinato all’incontro conviviale e al consumo di cibi e bevande attorno ad un tavolo.
Se dovessimo spingerci ancora più in là, probabilmente un tavolo è tutto ciò che troveremmo. Un tavolo, quattro sedie, dei bicchieri e del vino, senza pareti o tetto, se non in forma di tenda o tettoia tenuta su da quattro bastoni piantati nella nuda terra: qui, fin da allora se non da prima, si celebra il rituale.

A infittire la trama, il problema dei sacerdoti.
Le fonti di informazioni sul rituale, anche le più affidabili, consistono per la maggior parte in una sequela di “me nono me racontava che”, ma tutte concordano nel dire che i celebranti sono quattro e sono gli stessi da sempre.
Sono degli immortali, si potrebbe pensare, esseri umani nati con il dono dell’eternità. Allora perché non creature aliene? Ma chi ci impedisce di scegliere l’opzione religiosa e pensare ad esseri angelici, emissari divini, avatar di divinità ignote e imperscrutabili?
Ma per dio, scegliamo di non perderci in sterili speculazioni e di ragionare sul singolo dato certo: i sacerdoti sono vecchi.
Quanto, è difficile dirlo. Di certo più vecchi del concetto di bar. Difatti, quando il bar arrivò i quattro vecchi c’erano già. Il proprietario, il gestore o chi per lui si sarà limitato a prendere atto della loro presenza come di un fattore strutturale, o a un velocissimo confronto con il proprietario precedente, che possiamo immaginare esaurirsi in un “varda, no go mai capìo da dove che i riva, ma i ze qua ogni giorno. I paga giusto e no i rompe i cojoni”.

E dunque cosa vedremmo, se dovessimo varcare oggi la soglia del bar?
Quattro vecchiotti – o vecchiotte, secondo alcune versioni – seduti attorno a un tavolo in pose spazianti dal composto allo stravaccato, vestiti con nulla più degli abiti che ci aspetteremo di vedere addosso a un anziano, forse con la sola eccezione di un orologio da taschino, una sciarpa, un borsalino di un colore insolito. Uno di loro potrebbe avere un bastone da passeggio, un altro una pancia particolarmente prominente tagliata ai bordi da spesse bretelle marroni. Ancora, potremmo notare uno sguardo penetrante su un volto grigio e rugoso, o una barba particolarmente lunga e curata.
A onor del vero non ci stupiremmo di nulla, giacché qualsiasi bar di qualsiasi provincia di qualsiasi regione che si affaccia sul Mediterraneo può vantare almeno un capannello di clienti avanti con l’età che hanno fatto del locale la propria seconda casa.
Capiremmo così di avere di fronte gli avventori storici, forti della frequentazione assidua dell’esercizio commerciale e depositari di diritti e privilegi giustamente negati a noi avventori casuali.
E non sono forse questi, ognuno di questi vecchiotti e vecchiotte che nei bar persistono immutabili come le bottiglie di Campari, le tristissime spine di Peroni e la vetrina di paste, che nessuno ha mai visto uscire o entrare e quasi mai alzarsi dalla sedia, non sono forse anche questi dei sacerdoti, depositari della conoscenza scambiata in decenni di conversazioni avvenute una spanna sopra il bicchiere? Non sono anch’essi custodi del sapere? Non avrebbero qualcosa da insegnare anche al più savio? E se pensassimo ai quattro sacerdoti del nostro bar come alla summa di tutti i vecchiotti che siano mai esistiti in tutti i bar che siano mai esistiti nella storia del mondo, non avrebbero costoro il massimo diritto di determinare, per dio, il destino dell’umanità?

È certamente assurdo – ma potremmo ben dire grottesco – che un evento di tale levatura abbia una filologia tanto fumosa e frammentata, ma tant’è.
Sappiamo per certo che il rituale inizia dopo l’orario di chiusura. Per muovere qualche passo al di fuori del sentiero sicuro di ciò che sappiamo con certezza, possiamo immaginare che le luci del bar si spengano, così da non attirare l’attenzione di eventuali viandanti sperduti, ma rimanga accesa la luce collocata direttamente sopra il tavolo.
E sappiamo – questo, con certezza – che sul tavolo illuminato dall’unica luce del bar viene stesa una tovaglia bianca. Bianchissima, anzi. Una tovaglia che svergognerebbe in tonalità la neve appena caduta e in lucore i marmi più pregiati. È ignoto chi produca tale tovaglia, come anche chi abbia il compito di procurarla e di apparecchiarla sul tavolo, in quanto non sappiamo se il barista o cameriere di turno siano in qualche modo coinvolti nel rituale.
Sulla tovaglia vengono quindi posti quattro bicchieri e una bottiglia di vino rosso senza etichetta.
Di nuovo, potremmo lanciare la nostra immaginazione in un galoppo selvaggio. Merlot? Raboso? Un nettare distillato nei secoli in botticelle ricavate dal legno di quella barchetta che salvò Noè dal diluvio? E versato in calici di vetro? O boccali d’osso? Ma che ne possiamo sapere…
Non ci resta che consolarci con l’ultimo, sparuto brandello di conoscenza: i bicchieri vengono avvicinati al centro del tavolo e il vino rosso viene versato, in un movimento unico e circolare che, è facile dedurre, non manca di lasciare qualche traccia scarlatta sulla bianchissima tovaglia.
I quattro vecchiotti alzano i bicchieri e procedono a svuotarli. E continuano fintanto che durano il vino e la sete.
Questo è quanto sappiamo dell’intera faccenda. Su tutto il resto, neanche le speculazioni più ardite possono dare frutto.

Toni – Eora, scumissiemo?
Lèle – Varda che semo drio spetarte tì.
Toni – No te poevi versare, intanto?
Luigi – No, gavemo da esare tuti sentai.
Richéto – Dèi, Toni, nianca fusse ea prima volta che femo sta roba…
Toni – Dèi, eora, me so sentà, vanti col Cristo…
Lèle – Eh, bravo, te ‘o ricordito Cristo?
Luigi – Assa stare Cristo, gavemo da scumissiare. Passime el vin.
Toni – Eco là, in tondo, beo puito…
Richéto – Avanti col primo! Cin!

*I bicchieri vengono svuotati e rimessi al centro del tavolo. Sulla tovaglia bianca si vedono segni rossi*

Lèle – Varda che ben, se vede za colcossa…
Luigi – Ricordate che al primo giro no se parla.
Toni – Ciò ma cossa semo drio bevare?
Richéto – Ea stessa roba de chealtra volta. No te piase?
Toni – No, ze bon, ma no so, me pare diverso…
Lèle – Toni, varda che ze sempre el stesso vin da chea volta.
Luigi – Dèi tosi, no stemo perdere tempo. Passime el vin.
Toni – Sì vecio, ma varda che gavemo pena scumissià. Gheto intension de rompere i cojoni tuto il tempo?
Richéto – Dame qua che verso mì. Là, varda che ben.
Lèle – Bravo Richéto. Cin!

*I bicchieri vengono svuotati. Sulla tovaglia appaiono altri segni*

Toni – Seto che va zò proprio ben?
Richéto – Eh sì, ciò. E varda come che se slarga ben qua sua toea…
Luigi – Ciò tosi, ma sto segno qua?
Toni – Eh, bravo. No so se go capìo giusto, però…
Lèle – Cossa gaeo sto segno?
Luigi – Eh, Lèle. Varda ben. Te vedi come che ze messo?
Richéto – Tosi, ze inutie fare tante storie. Gavemo da bevare ancora.
Luigi – Bravo Richéto. Passime el vin.

*I bicchieri vengono svuotati. Sulla tovaglia i segni si allargano*

Richéto – Però Gigi, al prosimo giro ghe penso mì, che te mostro come che se fa.
Luigi – Ancora co sta storia… Dèi, fame vedare.
Richéto – Vedito? Te ghe da versare co deicatessa, in maniera de spanderghene poco.
Luigi – Ciò brombe, varda che l’idea ze proprio de spandere el vin. Se no cossa ze che lezemo?
Toni – Gigi, va tranquìo che dopo el quarto giro spandemo istesso…
Lèle – Dèi, tosi, gavì da farla ogni volta sta comedia?

*I bicchieri vengono svuotati. I segni di vino diventano arabeschi frattali che si inseguono a vicenda.*

Toni – Eco, gheto visto? Lèle gà fato un casin.
Richéto – Ah beh, te capirè ea novità…
Luigi – Sì, ma vardè i segni. Vedìo come che i gira?
Lèle – Eh, te ghe razon, ciò… Che sia a volta bona?
Richéto – Massa presto par dirlo. Però ze vero che i gira, ciò…
Toni – Vabè, poco da dire. Se continua. Passime el vin.

*I bicchieri vengono svuotati, più e più volte.*

Lèle – Ciò, ma ze finìo el vin?
Richéto – Va tranquìo, el vin no finisse.
Toni – Eora, gaeo da finire el mondo?
Luigi – No so…
Richéto – Sì che ga da finire!
Luigi – Go capìo che il mondo gà da finire, dèi. Ma quando?
Toni – E ze queo che so drìo domandarte!
Luigi – E te go dito che no eo so.
Lèle – Ma ‘l vin cossa dise?
Toni – Varda anca tì, no?
Lèle – Eh. Mi vedo che so imbriago…
Richéto – Lèle, te si el soito mona.
Luigi – Poemo fare i seri pa na volta?
Toni – Sì, ma passime el vin.
Luigi – Passime ea lenga sul cueo.
Toni – Magnime ea tega!
Richéto – Vardè qua, carogne! Varde sti do segni, come che i va su…
Luigi – E anca qua in meso, i segni dei bicieri…
Richéto – Brao.
Luigi – Tosi, go idea che ghe semo.
Richéto – Eh, ze a volta bona…
Toni – Ma savìo che forse…
Luigi – Ma sì, varda i segni. No ghe ze da sbaiarse.
Richéto – Bon, dèi, semo rivai a fine.
Lèle – Fazime vedare anche mì!

*Un bicchiere viene versato, il suo contenuto copre tutti gli altri segni.*

Luigi – Lèle, chea bruta cagna!
Richéto – Ma dèi, Lèle, te ghe spanto dapartuto!
Lèle – Orco can, che casìn… No se vede più gnente…
Toni – Lèle, te sì sempre tì. Eo feto posta?
Lèle – Ma no, Toni. Me ze cascà el goto. Dèi tosi, no steve rabiare.
Luigi – Eh, ma te ghe cambià tuti i segni! Come staltra volta! E quea prima! Che casso, Lèle…
Lèle – Eh, eo so, eo so. Cossa vuto che te diga. Sarà un caso…
Toni – Ti te sì più furbo che santo, Lèle. Ma varda che no te fe ben afesionarte a sta rasa. Prima o dopo bisogna finirli.
Lèle – Ma sì, te ghe razon. Scolta, zeo finìo el vin?
Richéto – No, ga da esserghene ancora.
Lèle – Eora versa, dèi.
Luigi – Sì, ze mejo, và…
Toni – Eora vanti col vin. Ma ze question de tempo, Lèle…

Questo è quanto sappiamo dell’intera faccenda. Su tutto il resto, neanche le speculazioni più ardite possono dare frutto.

Brancoliamo nel buio, ecco la verità.
Del rituale che determina il nostro futuro non sappiamo quasi nulla.
I molti benedetti dall’ignoranza possono stare tranquilli, curandosi delle miserie quotidiane.
I pochi che sanno possono solo sperare che, anche stavolta il rituale, si concluda in nostro favore.

 

 

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