PEZZI DI DADAS XIII
Chi interpreta chi
Sara Catalano – Dadas#2
Un so(g_n)no
Matteo Palozzo – Dadas#2
Una punta di malessere mi attraversa, premuto nello striminzito sedile dell’interminabile interregionale che mi sta riportando a casa.
Rimetto il libro nello zaino, fuori dal finestrino il litorale di gennaio è battuto da creste di onde brutali, vive.
Il cielo increspato da nuvole di ogni foggia che si scontrano disordinate è spazzato da un’ invisibile brezza, rivelata solo dall’agitarsi del mare.
Nello scompartimento saturo di tosse secca e starnuti, continui schiarirsi di voce annunciano l’arrivo della stagione più ammuffita e malandata.
L’umidità mi penetra ovunque, i vestiti pesanti tanto utili contro il freddo non possono nulla verso questa biblica piaga, che mi perseguita svariati mesi l’anno.
Nel sedile di fronte, una giovane ragazza profuma di vibrante inconsapevolezza, ne invidio la pelle liscia ancora vergine dai colpi dell’esistenza.
A un tratto, il convoglio si arresta in una stazione un tempo amata.
Una domanda ricorrente evapora all’uscita del vagone, aperto bruscamente dal pittoresco capotreno e subito richiusa.
Voci si insinuano nelle mie orecchie attente, subito coperte dall’ennesimo avviso metallico che segna ogni nuova ripartenza.
Pensieri pigri si inseguono in una mente non più allenata alla concentrazione, giorno dopo giorno plasmata solo da una feroce fame di superfluo.
Ancora una stazione, rumori concitati, questa volta distinguo con chiarezza la loro appartenenza ad altre età, quelle che stanno andando, quelle che devono ancora venire.
Il solito interrogativo che mi balena spontaneo nella corrente di questa coscienza alterata da un sonno crescente, subito si diluisce in nuove diapositive proiettate dal paesaggio, là fuori.
La costa ha lasciato posto ad un entroterra di case basse e scolorite, larghi estuari di fiumi, alti pioppi spogli.
Un’altra stazione.
Scalpicciano scarpe d’inverno, alcune più svelte e ansiose, altre tranquille e sicure.
Un telefono squilla e si confonde con la porta automatica che si richiude, poi si riapre per accogliere un ritardatario e si richiude ancora.
Sul bilico del dormiveglia il mio corpo stenta a rilassarsi, smanioso di riposo ma ancora gravido del cibo eccessivo delle feste.
Nel limbo, i viticci dei pensieri cominciano ad allentare la presa, rimangono solo gli impulsi autonomi che mi tormentano le viscere, ultimi bastioni di una coscienza rassegnata.
Uno spiffero che mi raffredda il collo, la vescica che preme contro i pantaloni troppo stretti, il lieve dolore di un piede incastrato in una posizione innaturale.
Mi concentro sul chiudere gli occhi, ascolto il ritmo leggero che il macchinario imprime al mio abbandono, sperando che l’umore pesante che mi porto appena sotto i radi capelli prenda finalmente il sopravvento.
Ai confini del buio mi aspettano sirene oscure, che cantano di oblio con voce dolente e odorosa di pioggia battente nella foresta.
Un tremito indefinibile mi attraversa la schiena, la battaglia è finalmente vinta e, naufrago del bastimento della veglia, annego verso abissi verdi tanto anelati.
La sala d’attesa della morte è fatta di suoni e carezze stranieri che conversano e si scoprono tra loro come nei viaggi d’infanzia.
Caratteri di lingue sconosciute si compongono come banchi di aringhe nel mio personale motto oracolare, pronunciato da una sacerdotessa ora sbiadita tra le pieghe dei ricordi: voglio una vita piena di poesia!
Varco la soglia sorridendo tra lacrime che scorrono lungo i muri intrecciati di piante, cascatelle amazzoniche dal solare scroscio argentino.
Da tutte le pareti, le centinaia di libri che non leggerò mai si aprono e si chiudono all’arrivo in ogni stazione, liberando ogni volta i minuscoli e caleidoscopici frammenti della Verità.
Le parole volanti mi trapassano come i terpeni degli alberi nei miei amati boschi, le assorbo da ogni punto cardinale, come una stella marina.
Percorrendo agilmente un tratturo che si fa sempre più fitto d’erba e canne palustri, le tinte dell’autunno imminente rivelano tracce di lupi e cinghiali.
Dall’argilla in cui i miei piedi si impastoiano sempre più spesso, capisco il sentiero essere letto di fiume, le rade pozzanghere cominciano a scorrere lente come le prime note di un blues.
Mi tuffo in quella più grande e nuoto verso la luce del fondo, resa cremisi e scarlatta da lunghe alghe pulsanti.
Due pozzi color del cobalto, unici averi del mio vicino di sedile, mi ricordano il manto di immensi squali tigre e d’improvviso gridano “arrampicati, forza!”
Risalgo allora faticosamente dalla scogliera sommersa, con il fardello di mille racconti già scritti nel pesante zaino di pietra che tira, e tira, verso il basso.
Ma appena emergo dalla superficie basta un refolo per sollevarmi nell’aria frizzante del mezzodì.
Nuotando goffo nel cielo velato, osservo il serpente del treno ventimila leghe lontano attorcigliarsi lungo la curvatura del pianeta.
“Ecco lì il tuo scompartimento” mi informano stupiti gli occhi di falco che tengo nel polsino sinistro, zigzagando tra uno spruzzo e l’altro delle altissime onde acquamarina.
Dal finestrino rigato di grigio osservo lo spazio tra i sedili, dove la ragazza di mezza età, guardiana dello zoo in vacanza, mi osserva.
Non l’avevo notata per tutto il viaggio, si crede troppo sciatta per poter festeggiare il compleanno con me.
Le voglio dire che non è così, allora comincio una difficile picchiata verso la locomotiva, ma nubi affilate mi tagliano i vestiti in mille coriandoli che piovono sulle piazze dell’ennesima, sconosciuta, stazione.
I bambini in festa per quel carnevale anticipato distraggono gli abitanti dalla mia nudità, una volta atterrato corro subito a nascondermi nell’affresco di una chiesa.
Il treno si allontana e con esso la guardiana dello zoo, lo inseguo correndo da un affresco all’altro, da un dipinto all’altro, da un arazzo all’altro.
Sono troppo lento.
Disperato mi arresto dinnanzi un negozio di specchi antichi ed ecco che ognuno riflette un me stesso passato, intento ad improbabile riposo nel minuscolo spazio vitale di un viaggio.
Scorro febbrile i vetri diversi finché non trovo ciò che cerco, eccomi là, accasciato con la bocca semiaperta e gli occhi rivoltati, simulacro malfatto della parte sbagliata dei trent’anni.
Una gioia indicibile mi riempie la bocca mentre entusiasta mi impongo la sveglia, gridando: “ma certo che faremo il compleanno assieme!”
Un controllore corpulento, che stava per chiedermi il biglietto, mi scruta con aria interdetta mentre d’intorno c’è chi scoppia a ridere, chi borbotta, chi continua ad ascoltare la sempiterna musica nelle cuffie.
Prima di farmi bordeaux per l’imbarazzo riesco a rubare alla coda dell’occhio, dall’altra parte del vagone, uno sguardo incuriosito della ragazza di mezza età, un po’ trasandata, che alla salita non avevo notato.
Mostro il biglietto, mi ricompongo con dignità, sollevo il pesantissimo zaino pieno di mille racconti non ancora scritti e mi dirigo verso di lei, deciso come non sono mai stato in vita mia.